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Che cosa resta
dell'Heysel, trent'anni dopo
di Francesco
Caremani
Trent'anni fa
la tragedia sugli spalti dello stadio belga prima
della finale di Coppa Campioni tra Liverpool e
Juventus. I silenzi, gli imbarazzi e la lotta dei
sopravvissuti in questi anni.
Otello
è morto l’anno scorso, di maggio come Roberto, il
suo unico figlio deceduto nella strage dell’Heysel
il 29 maggio 1985. Era un giovane e bravo medico di
Arezzo, Roberto, tifoso della Juventus, era stato ad
Atene nel 1983 (quando a sorpresa l’Amburgo vinse la
coppa dalle grandi orecchie), a Basilea nel 1984
(quando contro il Porto i bianconeri conquistarono
la Coppa delle Coppe) e a Bruxelles ci andò, come
sempre, col padre e i due cugini, Andrea e Giovanni.
Un viaggio che doveva essere una festa, la finale
del secolo (come fu ribattezzata allora) contro il
Liverpool che si trasformò nella tragedia del secolo
e nella definitiva perdita dell’innocenza del calcio
mondiale. Roberto era salvo, nonostante la calca e
le cariche degli hooligan del Liverpool, ma si
lanciò in mezzo all’inferno per tentare di salvare
un connazionale (molto probabilmente Andrea Casula,
11 anni, la vittima più piccola) con la respirazione
bocca a bocca, gesto che gli è stato fatale e che
oggi una medaglia d’argento al valor civile appesa
nel salotto di via Giordano Bruno 51 ricorda. A
Bruxelles, nel fatiscente stadio Heysel, il 29
maggio 1985 morirono 39 persone, 32 italiani, 4
belgi, 2 francesi e un nordirlandese. Uccisi dagli
hooligan inglesi, ubriachi all’inverosimile (tanto
che avevano messo a ferro e fuoco la Grand Place
poche ore prima) e armatisi in un cantiere adiacente
l’impianto che era in ristrutturazione, con la
responsabilità dell’Uefa e delle autorità sportive e
politiche belghe, che non si curarono di scegliere
uno stadio sicuro e che organizzarono
cialtronescamente l’ordine pubblico. Senza
dimenticare che il settore Z sarebbe dovuto essere
completamente appannaggio del tifo neutrale accanto
alla marea inglese, invece molti di quei biglietti
furono venduti dai bagarini in Italia a prezzi
maggiorati e per 39 angeli si rivelarono di sola andata. Angeli delle famiglie e delle comitive che
entrarono in quello spicchio di stadio dopo una fila
di quasi tre ore passando da una porta larga 80
centimetri, l’unica via di fuga che diventerà di
fatto inaccessibile. Angeli impreparati
all’improvviso lancio di oggetti contundenti, ai
pochi (circa sei) poliziotti che scappano, alla rete
da giardino che li divideva e che viene giù in un
secondo, alle cariche continue, impreparati a morire
per una partita di calcio. Partita che si gioca lo
stesso, decide l’Uefa insieme al Belgio. Non sanno
più cosa fare e devono evitare altri morti. Si gioca
per chiamare l’esercito (arriveranno i carri
armati), si gioca per una questione di ordine
pubblico e si assegnerà la Coppa dei Campioni perché
così hanno voluto quelli del Liverpool. Non è
un’amichevole, ma diventa una farsa perché si gioca
mentre i 39 corpi sono ancora lì, in fila sotto la
curva Z ridotta a un campo di battaglia, in cui gli
hooligan hanno irriso i morti prima che li
portassero via. Si gioca sapendo, come ha sempre
confermato Stefano Tacconi, portiere di quella
Juventus. Otello Lorentini non poteva accettare di
avere perso l’unico figlio (assunto dall’ospedale di
Arezzo con lettera datata 29 maggio 1985) per una
partita di calcio, così, su consiglio di un
avvocato, fondò l’Associazione tra le famiglie delle
vittime di Bruxelles per portare davanti a un
giudice i responsabili della strage che ha cambiato
per sempre il football. Un processo lungo,
difficile, condotto in solitudine, quella solitudine
che è durata decenni e che in parte dura ancora,
perché ricordare l’Heysel da fastidio a tanti,
ricordare quello che è accaduto, le colpe, i
comportamenti durante e dopo, soprattutto dopo, non
è cool, in particolare oggi dove imperversano il
gossip e il patinato, dove si scrive e si parla
sempre meno di calcio. L’Heysel fa parte della
nostra storia, anche sportiva, e ogni 29 maggio è lì
a ricordarcelo, nonostante le amnesie, che vengono a
galla quando nei nostri stadi o nelle adiacenze
accade qualcosa di violento (inaspettato ?), allora
tutti a sciacquarsi la bocca con la strage di
Bruxelles, senza sapere, senza essersi documentati,
tutti a citare la Thatcher e fare figure meschine,
perché chi sa non confonde. Gli inglesi non hanno
messo mano al loro football dopo l’Heysel bensì dopo
Hillsborough e ancora oggi, sono passati 26 anni,
non conoscono la verità e le cause che hanno
determinato la morte di 96 tifosi del Liverpool; non
sanno che la tragedia di Hillsborough è figlia
dell’Heysel, perché gli inglesi hanno preferito
polemizzare, inventare scuse, arrabbiarsi per la
squalifica dei club dalle coppe europee, mettendo la
testa sotto la sabbia. Mai risveglio è stato più
drammatico. Se avessero imparato la lezione, quella
che nessuno, soprattutto in Italia, pare aver
imparato, forse Hillsborough sarebbe rimasto
solamente il nome di uno stadio.
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E la Juventus
? Una messa nel 2010 e una messa quest’anno, nel
mezzo uno spazio dentro il Museum bianconero con
targa e nomi, di più nemmeno Andrea Agnelli sembra
capace di fare, il primo presidente che ha
intrapreso, con difficoltà, un percorso verso la
rinata Associazione fra i familiari delle vittime
dell’Heysel, presieduta da Andrea Lorentini, figlio
di Roberto e nipote di Otello, vice presidente
Emanuela Casula che all’Heysel ha perso il padre e
il fratello, Giovanni e Andrea. Rinata anche per
difendere la memoria dei propri cari, vituperati e
ignominiosamente offesi negli stadi italiani da
trent’anni, cori sanzionati per la prima volta nel
2014, la perdita di memoria genera mostri come il
sonno della ragione. Non c’è, infatti, una memoria
condivisa e in troppi preferiscono cullare il
proprio Heysel dimenticandosi dei familiari delle
vittime e di quei 39 morti, quasi fossero un
ostacolo per ammirare una coppa. L’Heysel sarebbe
dovuta diventare la Superga bianconera, con tutte le
differenze che in troppi banalmente sottolineano: un
momento di comune condivisione di un ricordo che non
potrà mai essere cancellato, dalle nostre memorie e
dalle nostre coscienze. Senza dimenticare che a
Bruxelles sono morti tre interisti, come Mario
Ronchi che andò con gli amici, forse quando
l’amicizia era più importante del tifo. Per questo
l’Heysel dovrebbe essere, come Superga, una tragedia
italiana non solo juventina, ma Lega e Figc hanno
brillato meno della Juventus in questi trent’anni e
mai hanno tentato di ricordare e di commemorare i 39
angeli di Bruxelles. Qualche settimana fa
l’Associazione ha chiesto il ritiro (simbolico)
della maglia azzurra numero 39, simbolico perché
quel numero di maglia in Nazionale non esiste, gesto
accolto con scetticismo e critiche dall’opinione
pubblica, si sa i parenti delle vittime si
preferiscono silenziosi e discreti, quando reclamano
rispetto e memoria vengono attaccati e
stigmatizzati, perché, come ha detto Paul Valéry,
"quando non si può attaccare il ragionamento, si
attacca il ragionatore". E pare proprio una gara
quella che in questi ultimi mesi ha tentato di
sminuire l’autorevolezza dell’Associazione fra i
familiari delle vittime dell’Heysel e di chi li ha
sostenuti e accompagnati in tutti questi anni. Ma
allora cosa resta dell’Heysel ? C’è stata giustizia
? Come ha sempre detto Daniel Vedovatto, l’avvocato
italo belga dei familiari italiani, in quelle
condizioni e con il diritto che all’epoca vigeva in
Belgio è stato ottenuto il massimo: condanna
dell’Uefa, di un capitano di polizia, dei pochi
hooligan rintracciati e risarcimenti, che nessuno ha
mai chiesto. Forse qualcuno s’è perso, ma la
condanna dell’Uefa, resa corresponsabile delle
manifestazioni che organizzava e che organizza è
storica, ha fatto giurisprudenza e ha cambiato per
sempre il football europeo, soprattutto le coppe,
esigendo severi requisiti di sicurezza per gli stadi
delle finali e non solo. Se non ce ne siamo accorti
è perché ce ne siamo dimenticati. Trent’anni sono
una vita, un vuoto incolmabile e recuperare terreno
è quasi impossibile. Resta la forza di Otello
Lorentini che ha guidato i familiari delle vittime
italiane contro i migliori avvocati d’Europa, la
forza che l’ha spinto a citare direttamente l’Uefa
nel processo, dopo che in primo grado erano stati
tutti assolti, restano i volti, le immagini, i
ricordi, i sogni, i sorrisi e il terrore di 39
persone che sono morte dentro uno stadio per vedere
una partita di calcio. Li sentite ? Stanno
sussurrando qualcosa: "La storia (dell’Heysel) siamo
noi, nessuno si senta offeso".
Fonte: Il Foglio.it © 27 Maggio 2015
Fotografie: GETTY IMAGES
(Not for Commercial Use) © Francescocaremani.com ©
NdR:
Articolo Premiato Oscar Giornalismo Internazionale
2015 ©
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Giocare all'Heysel
di Marco D'Eramo
"Alè-alè",
gridavano trionfanti i tifosi della Juventus e bruciavano
fuochi, ma in sovraimpressione sul teleschermo sfilava la
scritta: "telefonare a questo numero per sapere chi sono i
morti". 24, 36, 60 umani uccisi nello stadio di Bruxelles.
Prima che la coppa cominci transenne divelte, busti
schiacciati estratti a forza dal cemento, "tafferugli tra
tifosi che hanno turbato lo svolgimento della partita" - ci
dicevano. In nome dello Sport con la esse grossa così,
quella che sa di sfida, leale, sana, disinteressata, invece
i morti erano morti, i poliziotti affluivano, la Uefa decideva di far giocare la partita
per ragioni di ordine pubblico. In ogni pazzia c'è un metodo
e forse a non giocare il massacro sarebbe stato maggiore.
Dopo la strage il fischio d'inizio: riti selvaggi dei tempi
moderni, roller balls, danze
macabre, tutto questo o niente di questo. I giocatori
entravano in partita, falli, contro falli, un rigore
discutibile... All'inizio sembravano i musicanti del Titanic
che suonano mentre la nave affonda, persino una certa
dignità. Poi, progressivamente, lo sbraco: l'esultanza per
il rigore, il gaudio per il gol... Poi, la luna, i falò, la
"Coppa italiana", sciovinismo e retorica. Ma noi non abbiamo
spento il televisore dopo i 24, 36 o 60 morti ? Abbiamo
guardato i passaggi di Rush o di Cabrini, ammirato Boniek o
Platini ? Non avevamo preso un treno di seconda classe fino
a Bruxelles, pagato la locale curva sud ? Loro erano un po'
noi... Noi siamo più fortunati, non saremmo tornati in treno
dopo i falò, dopo la vittoria, dimenticati, noi, morti
schiacciati non decorati. Oggi, domani, saremo tutti contro
la barbarie, saremo tutti contro lo svilimento dello sport,
ma in vita nostra non abbiamo mai visto in diretta niente di
più agghiacciante, niente che unisse così fortemente lo
spettacolo, la morte, il virtuosismo, la professionalità.
Nel 1985 l'ordine pubblico richiede che dopo la strage si
giochi...
Fonte: Il Manifesto
©
30 maggio 1985
Fotografie:
Valdichianaoggi.it © GETTY IMAGES (Not for Commercial Use)
© Dibertiec.com
Voce Narrante: Valentina Carnelutti ©
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