I morti di
Valencia e il calcio che va
avanti: ma
l'Heysel è un'altra storia
di
Francesco Caremani
Roma-Real Madrid,
11 settembre 2001. Per la mia generazione,
quelli di noi che amano il calcio, la prima
giornata della Champions League 2001-02 è
passata alla storia per essersi giocata
nello stesso giorno dell’attentato alle
Torri Gemelle. Si giocò mentre New York
bruciava, si giocò mentre c’era chi lottava
per estrarre i corpi da sotto le macerie, si
giocava mentre il mondo, al di qua
dell’Atlantico, era incollato, attonito, dal
primo pomeriggio davanti al televisore,
confondendo il fumo dell’attentato con
quello dei fumogeni dentro uno stadio.
Il dramma di
Valencia - All’epoca l’Uefa non fu in grado
di rimandare la prima giornata, rimandando
solamente le partite del giorno dopo. Un
meccanismo, già allora, incapace di
fermarsi, incapace di portare rispetto a
qualcosa che era molto più grande di lui,
dentro un calendario che più di venti anni
fa era difficile da gestire, figurarsi oggi.
È accaduto di nuovo. In questi giorni in cui
la Comunità Valenciana sta affrontando il
disastro di un evento climatico senza
precedenti, mentre la conta dei morti
diventa insopportabile e la ripresa della
vita quotidiana un miraggio, e mentre la
MotoGP ha rinunciato a correre nel circuito
cittadino, accettando anche di finire il
Mondiale allo stato delle cose per poi
virare su Barcellona, il calcio non si è
fermato, non lo ha fatto l’Uefa con la
Champions League, non lo ha fatto la Liga
del grande “moralizzatore” Javier Tebas
Medrano. Che immensa vergogna. Il calcio non
si è fermato nemmeno durante la pandemia di
Covid-19, ovvero lo ha fatto ma dopo, lo ha
fatto perché non poteva farne a meno
riprendendo la maggior parte dei campionati
e le coppe europee in estate per consegnare
premi e trofei, mentre c’è chi ha avuto più
dignità e ha interrotto tutto, chi non
assegnando il titolo e chi riconoscendolo
alla squadra oggettivamente più forte, roba
da Europa del Nord ma non del Sud. In
Italia, per esempio, si è forzata la mano
fino all’impossibile, facendo giocare le
squadre in stadi vuoti e in un clima
surreale, poi ripartendo e violando più
volte i protocolli senza subire sanzioni;
parte di un capitolo ben peggiore di un
Paese che si è vergognosamente scoperto
nemico della scienza.
The show must go
on - Restando all’Italia, sono all’ordine
del giorno le polemiche per partite non
giocate a causa delle alluvioni o di eventi
climatici disastrosi, che hanno causato
danni ingenti alla popolazione e morti. In
questi anni è accaduto per un
Napoli-Juventus (c’era stato un morto), per
Fiorentina-Juventus (con la Toscana
sott’acqua) e per Bologna-Milan con l’Emilia
Romagna in ginocchio da due anni. Spesso si
è polemizzato sul fatto che il giorno della
partita c’era il sole dimenticando tutto il
resto. E forse, allora, è il caso di dirselo
fino in fondo. Se il calcio fosse ancora un
gioco lo si interromperebbe sempre di fronte
a cose più importanti, di fronte alla
Storia, di fronte alle calamità naturali, di
fronte ai morti. Evidentemente non lo è più
e forse non lo è mai stato. Il calcio,
invece, è un’industria e come tale deve
andare avanti, non si può fermare altrimenti
collassa dal punto di vista economico, come
ha rischiato di fare durante la pandemia.
Continuare a dirsi che è altro è ipocrita e
fuorviante, quindi anche i protagonisti
dovrebbero avere il coraggio di ammetterlo.
Un brutto risveglio per chi crede ancora
alle favole. Però c’è un concorso di colpa,
perché parte dei tifosi (?) sui social media
ha sempre espresso il parere di voler vedere
le partite a tutti i costi: a Napoli, come a
Firenze e Bologna. Vogliono la partita,
qualunque cosa accada, perché se non sono
colpiti personalmente dalle tragedie non
gliene frega niente e basta con questa
storia che il tifo organizzato “fa anche
cose buone”, certo, quando non è impegnato
nelle partite o quando, come a Valencia, non
c’è spazio per altro che per gli aiuti e
dove ogni secondo è prezioso, ma potendo
scegliere… Dirò di più. Ricordo ancora il
giorno della morte di Davide Astori, quando
la Serie A, udite Merano, si è fermata.
Ricordo tutto, i commenti sotto un mio post,
tifosi (?) che mi hanno bloccato, che
rivendicavano il diritto alla gradinata di
uno stadio sulla pelle di un ragazzo che era
morto da poche ore, rivendicando anche i
soldi spesi (tutte le settimane di tutte le
stagioni, ma non ce l’hanno il mutuo da
pagare e i figli da mandare a scuola?!) e
dimenticando che l’industria ha solamente
clienti e che quando qualcuno, molti anni
fa, lo scriveva e lo faceva notare in molti
hanno girato la testa dall’altra parte
perché l’unica cosa che contava era poter
andare allo stadio, le coreografie, battere
i “nemici”, mica fermarsi a riflettere.
Perché, va detto, un calcio diverso
pretenderebbe una presa di posizione
radicale e si dovrebbe stoppare prima di
ripartire in modo completamente differente,
e chi pensa che si possa fare in corsa non
ha alcun contatto con la realtà.
L’Heysel e le
ricostruzioni posticce - In questi giorni
alcuni siti, sul fatto che il calcio non si
ferma mai, nemmeno davanti ai morti, hanno
ricordato l’Heysel. E come al solito lo
hanno fatto male. Era osceno giocare con i
morti messi in fila sotto la tribuna ? Sì lo
era. E chi meglio di Otello Lorentini che
piangeva Roberto, il figlio unico, medaglia
d’argento al valore civile per essere morto
tentando di salvare un connazionale, poteva
saperlo, lui che poi ha fondato
l’Associazione tra le famiglie delle vittime
di Bruxelles per affrontare il processo e
ottenere giustizia dopo quella strage,
perché di strage si è trattato. Eppure,
durante il processo, ha capito che quella
scelta è stata oculata e che ha impedito
altri morti, nel momento in cui tutti erano
a conoscenza di quello che era accaduto
nella curva Z. Il 29 maggio 2025 saranno
passati 40 anni da quella maledetta notte di
Bruxelles e nell’avvicinarsi a
quell’anniversario si inizia già a sentire
il rumore delle fake news e delle
ricostruzioni posticce per coprire la
vergogna di chi non ha mai fatto niente per
ricordare le 39 vittime e di chi, gli
antijuventini, le hanno offese dalle
gradinate di uno stadio. Gli stessi che
vogliono andarci a tutti i costi, anche
quando ci sono dei morti, anche quando la
Storia gli suggerisce che sarebbe meglio non
farlo: ma che ne sanno loro della storia e,
soprattutto, della pietas. Termino con
un’autocitazione, poco simpatica me ne rendo
conto: chi volesse saperne di più
sull’Heysel in maniera corretta può leggere
il mio libro “Heysel - le verità di una
strage annunciata”, il primo sull’argomento,
mentre gli altri sono arrivati tutti dopo.
Per chi, invece, vuole credere agli asini
che volano c’è solo l’imbarazzo della
scelta.
Fonte:
Today.it © 6 novembre 2011
Fotografia: Lastampa.it ©
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