LA
TESTIMONIANZA
Heysel 35 anni
dopo: "Mi arrabbio, dunque ricordo"
di Massimiliano
Nerozzi
Andrea
Lorentini perse il papà, medico, morto tentando
di aiutare un bambino: "Basta cori contro, fu
una tragedia di tutti. Come Superga".
Cerchiamo di dare un
senso a qualcosa che senso non ha, ripete Andrea Lorentini, 38 anni, che nella notte dell’Heysel,
il 29 maggio 1985, perse il papà Roberto,
trentunenne medico di Arezzo. Cerca di darci un
senso anche quando gli imbecilli insultano
quelle 39 vittime, con i cori dalle curve o gli
spray sui muri: "Mi incazzo — dice — ma proprio
per questo bisogna ricordare. Perché non sia la
memoria di una sola tifoseria, o di una squadra,
ma sia il ricordo di tutti. Vale anche per
Superga". Dopodiché, per chi si è visto
seviziare la vita, è ancora più dura: "Da un
punto di vista personale, l’Heysel è una di
quelle ferite che non si rimarginano. Come fai a
dimenticare la perdita di un genitore? Il dolore
è per sempre".
La battaglia
di nonno Otello e dell’associazione vittime
- Non rimane che combattere, allora, come ha
fatto la famiglia di Andrea, da papà Roberto,
che morì tentando di salvare gli altri, a nonno
Otello, ferroviere in pensione e fondatore
dell’associazione tra i famigliari delle vittime
che, alla fine, riuscì a fare condannare la Uefa
(nel 1992). Tra i responsabili di una gestione
dilettantesca e criminale. Da qualche anno
l’associazione s’è ricostituita, per "esercitare
il diritto alla memoria, ma facendolo in maniera
concreta: con iniziative di educazione civica,
fino al parlamento Europeo, grazie anche ad
Alberto Cirio". Per i 35 anni della tragedia
c’era un’iniziativa al museo del calcio di
Coverciano, boicottata dal Covid. Si rifarà.
Un monumento
alla Continassa -
Quella notte, Roberto Lorentini era riuscito a
salvarsi, scappando da una calca urlante e
schiacciata, corpo su corpo, sangue su sangue,
contro il muro del settore Z. Tra la carica
degli hooligans del Liverpool e pezzi di cemento
che arrivavano da tutte le parti. Poi vide un
bambino, Andrea Casula, 11 anni, sepolto in
quella bolgia dantesca, e tornò indietro, per
salvarlo. Furono travolti entrambi, da una
seconda ondata di persone in fuga. Per questo,
fu poi decorato con la medaglia d’argento al
valor civile. Schegge di memoria che fanno male,
e che il figlio — tre anni all’epoca — ha saputo
solo dopo: "Quella partita non l’ho mai rivista:
perché con lo sport non c’entra nulla". Tanti
hanno rimosso, come raccontò Marco Tardelli, a
31 anni e 90 minuti da una Coppa Campioni che
mancava alla bacheca: "Ho cercato di cancellare
tutto, questa è la verità. Ma purtroppo non si
cancella niente di quella serata. In cui tutti
hanno perso e nessuno si è salvato. Nemmeno, e
soprattutto, quei poveretti che ci hanno
lasciato la vita. È stata una delle più brutte
cose nella storia del calcio". Lo stesso
Tardelli che, nel 2015, ebbe il coraggio e la
sensibilità delle parole: "Chiedo scusa. Chiedo
scusa se in qualche momento ho esultato per la
vittoria: perché probabilmente l’ho fatto
anch’io. Rivedendo il tutto, chiedo scusa per
quello. E per quello che non hanno fatto gli
altri per salvare quelle persone". Bisogna
allora difendere la memoria come, da sempre,
fanno gli ultrà della curva — "e mi fa piacere",
dice Andrea — e come potrebbe fare lo Stato: "Ho
incontrato la segretaria del ministro Spadafora,
per istituire una giornata contro la violenza
nello Sport". Come fa la Juve, che al J-Museum
ha messo "una stele con i nomi delle vittime, e
ha il progetto di un monumento, nella sede della
Continassa". Anche con il nome di Roberto, che
magari sarebbe potuto essere ancora qui: "Certo
che ci ho pensato, ma papà era uno che donava il
sangue, che faceva il volontario, e che quella
sera si comportò come era lui: tentando di
aiutare gli altri. A me piace ricordarlo così".
Fonte:
Torino.corriere.it
©
29 maggio 2020
Fotografia:
SkyTg24
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