L'EROE
LORENTINI TRA IL CORAGGIO E LA DEDIZIONE
di Matteo
Marani
Bruno Pizzul,
campione di giornalismo pure nell'ora della
tragedia, lo chiarì subito: "Commenterò
l'incontro con il tono più asettico possibile".
Nell'appartamento di Arezzo della famiglia Lorentini, ansia, angoscia e terrore assalirono,
davanti al televisore, una giovane mamma,
prossima alla laurea in Medicina, e con
due figli piccoli: Stefano di un anno e
mezzo e Andrea di 3 anni. Al telefono, è
proprio Andrea a raccontare quella sera
di sua madre, allora ventottenne, oggi medico
in pensione, e dei nonni patemi Liliana
e Otello, figure straordinarie. È toccato
a loro far crescere chi è rimasto orfano
per l'Heysel. Andrebbe ricordato a quanti
oscenamente hanno intonato cori contro le
vittime. Nello sguardo pulito di Andrea
è scritta la parte più intima di una tragedia
che per il resto degli italiani resterà
la maggiore vissuta dal nostro sport, ma
per lui è un lutto personale. A Bruxelles
mori Roberto Lorentini, capofamiglia e medico.
Fu la sua professione, ma soprattutto il
coraggio, a costargli la vita. Era scampato
alla prima carica degli hooligans inglesi,
eppure decise di tornare indietro per soccorrere
Andrea Casula, anni 10, più giovane vittima
dell’eccidio. Vedendolo agonizzante, gli
praticò un massaggio cardiaco, mentre la
seconda ondata si abbatteva sul settore
Z, spicchio di curva riservato ai tifosi
del Liverpool. Nell'86, l'allora ministro
Oscar Luigi Scalfaro ha conferito a questo
eroe una medaglia d'argento al valore civile.
"É qui con me spiega Andrea e spesso la
guardo per capire l'esempio di mio padre".
Fa bene. Roberto Lorentini e Andrea Casula
furono travolti, schiacciati e uccisi dalla
barbarie dei supporter inglesi assieme ad
altri 37 morti di quel 29 maggio 1985. Sono
passati 37 anni esatti da allora, ed è giusto
ricordarlo nel giorno successivo a una finale
Champions. Non c'erano solo tifosi della
Juve, ma anche interisti come Nino Cerullo
e Mario Ronchi, e non c'erano unicamente
italiani, ma pure belgi, francesi e un nordirlandese.
L'Italia era rappresentata per intero: Chieti
e Varese, Udine e Catania, Bergamo e Brindisi,
Perugia e Torino, Cagliari e Genova. Da
quest'ultima veniva Barbara Lusci, la più
anziana, se si può usare questo termine
per una donna di 57 anni. Era la sua prima
volta fuori dall'Italia, non l'ha più rivista.
Dietro al numero, e appunto al ricordo generale
che vede un memoriale alla Continassa, una
piccola targa ad Anfield e la maglia numero
39 della Nazionale ritirata per sempre,
c'è la vicenda personale di chi la strage
l'ha vissuta in casa. Emanuela, sorella
del piccolo Andrea Casula, è vicepresidente
dell’Associazione vittime dell'Heysel, ricostituita
proprio da Andrea Lorentini nel 2015. Entrambi
hanno perso i familiari in Belgio, oggi
sono uno accanto all'altra per non smarrire
la memoria. Con loro ci sono Riccardo Balli
di Prato e Fabrizio Landini di Torino. Il
nonno Bruno aveva una trattoria e la Juve
nel cuore la notte in cui la Uefa si dimenticò
di proteggere gli spettatori di una partita. (NdR: Bruno,
una delle vittime, era invece il fratello
di Riccardo mentre era Giovacchino il ristoratore
a cui si fa riferimento, nonché zio di Fabrizio)
Tra padri, mogli e figli si sentono continuamente,
ogni anno organizzano un'assemblea. Se qualcuno
è venuto a mancare visto lo scorrere degli
anni, si sono aggiunti nipoti. Lottano perché
nessuno possa rimuovere il peso di 39 vittime.
La prima associazione la mise su Otello Lorentini per seguire il processo che portò
alla ridicola pena di 4 anni per 9 hooligans,
solo un terzo degli iniziali imputati. È
stata una farsa, come la polizia belga,
il governo locale e l'Uefa quella notte.
Per fortuna, in mezzo al dramma di una vita,
ci sono famiglie che non hanno mai mollato
e che continuano a lottare per il ricordo.
Un giorno che non smetterà mai di urlare
giustizia.
Fonte: Tuttosport © 29 maggio
2022
Fotografie:
Associazionefamiliarivittimeheysel.it ©
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